Dal 8 al 12 settembre 2025 si è tenuta a Belgrado l’European Conference on Educational Research (ECER), a cui ha partecipato una nutrita delegazione afferente alla sezione di Pedagogia del dipartimento FISPPA dell’Università di Padova.
La settimana di lavori è stata inaugurata con l’Emerging Researchers’ Conference (ERC, 8-9 settembre) che anticipa e introduce l’evento principale dell’ECER (9-12 settembre). Una full immersion che ci ha condotto a esplorare un nuovo contesto, nuove lingue, nuovi sguardi e approcci al mondo dell’educazione.
Una comunità ampia e vivace che coinvolge diverse figure accademiche alimentando un clima di dialogo intergenerazionale: docenti, ricercatrici e ricercatori, dottorande e dottorandi.
Tutte e tutti riuniti attorno a due domande semplici ed inesauribili: cosa significa fare ricerca educativa oggi, in Europa e oltre? Quali sono gli approcci, le potenzialità e le prospettive della ricerca educativa?
L’ECER si è rivelato non solo un semplice insieme di presentazioni ma un’ecosistema basato sulla conoscenza e il dialogo. I 34 network tematici dell’European Educational Research Association (EERA) hanno offerto un intreccio di opportunità per addentrarsi e approfondire le questioni emergenti, condividere visioni e approcci, testare idee e porre le basi per future collaborazioni. Ci si può muovere in profondità, dentro il proprio dominio di ricerca, e in ampiezza, sbirciando terreni che non fino ad allora inesplorati. Abbiamo fatto esperienza di una ricerca che esce dalle proprie mura per confrontarsi con colleghi e colleghe e accogliere complessità e punti di vista differenti. Per noi è stato anche un momento di crescita interno grazie ad un’ampia presenza di docenti e colleghi dell’Università di Padova che hanno reso il congresso un laboratorio itinerante. Tra un panel e un caffè, abbiamo incrociato risultati, metodi, dubbi. Confrontarsi in un contesto internazionale ha fatto emergere convergenze e differenze che, nella pratica educativa quotidiana e nell’attività di ricerca, rischiano di restare implicite. Inoltre, ECER presenta una forte dimensione internazionale che coinvolge anche i Paesi extra-UE. Questo allarga lo spettro delle questioni e sposta le prospettive: le stesse parole vibrano in modo diverso a seconda dei contesti da cui provengono in quanto caratterizzati da peculiarità di natura politica, socioeconomica, culturale e demografica.
La ricchezza dell’offerta ha reso possibile quattro movimenti:
● Approfondire il nostro campo di ricerca, individuando ottimi esempi sia teorici che pratici nei campi di ricerca dell’intercultura e dell’identità professionale, tecnologie e formazione iniziale;
● Fare networking con ricercatori e ricercatrici (emergenti e non solo) che affrontano gli stessi nodi da prospettive e attraverso approcci diversi;
● Scoprire spazi nuovi dell’educativo, utili a ripensare le cornici teoriche che stiamo approfondendo;
● Conoscere un contesto ‘‘nuovo’’ – fortemente influenzato dall’eredità della transizione post bellica e della disgregazione dell’ex-Jugoslavia – in una fase delicata in seguito alle mobilitazioni studentesche.
Tra i momenti più significativi segnaliamo una nostra presentazione su tematiche legate alla giustizia sociale e all’educazione interculturale, nell’ambito del Network 7. Le osservazioni ricevute hanno avviato una riflessione sul posizionamento di chi conduce e fa ricerca. Un confronto, in particolare, che ci ha aperto nuove prospettive. Il richiamo a contesti, come quello islandese, in cui l’immigrazione ha una storia più stratificata rispetto all’esperienza italiana ci ha invitati a domandarci: quali lenti rischiamo di imporre ai dati quando li interpretiamo da un contesto “più giovane” sul tema?
Inoltre, in più reti è riemerso un tema trasversale: la fase di induction e la carenza di insegnanti in diversi sistemi europei. Cosa ci dice questo sulla nostra realtà? Non basta “reclutare di più”: serve accompagnare meglio. Se l’ingresso nella pratica è un passaggio critico, allora la formazione iniziale non può limitarsi a trasmettere repertori, ma deve abilitare a negoziare l’imprevisto, a leggere i contesti, a cercare sostegno professionale. È un invito a non trattare l’induction come una parentesi, ma come cerniera tra formazione e lavoro.
Un intervento molto atteso è stato quello di Gert Biesta, che ha riacceso un dibattito antico ma sempre attuale: teoria e pratica nella formazione dei futuri insegnanti. La tensione non si risolve con “più strumenti” né con “più teoria”: troppi strumenti rischiano di invecchiare in fretta e di illudere che esistano ricette da ‘somministrare’; un approccio prettamente teorico rischia di scollarsi dalla realtà che ci circonda.
La teoria, se ben scelta, dà forma al giudizio e rende adattabili i saperi; la pratica collega il lavoro educativo alla vita delle classi.
Raccontare ECER a Belgrado significa anche riconoscere il contesto. In quei giorni abbiamo assistito alla mobilitazione studentesca e all’occupazione dell’università che è in atto da mesi: una richiesta di maggiore qualità democratica che sta attraversando la città e il Paese. Essere lì, come comunità accademica europea, ha rilanciato una domanda scomoda e necessaria: che responsabilità ha l’università nel custodire e promuovere pratiche democratiche?
Le manifestazioni studentesche non sono state solo politiche, ma presentano anche una natura pedagogica: la piazza è diventata essenzialmente un luogo di azione democratica, pensiero critico e empowerment, in un contesto plasmato dall’eredità della dissoluzione della Jugoslavia. Lo slogan “Nije filozofski ćutati”/“non è filosofico rimanere in silenzio”, affisso all’ingresso della Facoltà di Filosofia e citato dal professor Pavel Zgaga nel suo Keynote Speech dal titolo “educational research, policy and politics”, sottolinea il messaggio che l’educazione presenta anche una dimensione socio-politica.
● Come formare futuri docenti quando molti sistemi vivono la scarsità di insegnanti?
● Quale equilibrio onesto tra teoria e pratica può sostenere scelte didattiche consapevoli?
● Come rendere il posizionamento del ricercatore e dell’insegnante una risorsa di consapevolezza identitaria?
● In che modo l’università può essere luogo per alimentare processi di emancipazione e rafforzare un approccio critico?
ECER ci ha ricordato che fare ricerca educativa è, insieme, indagine e cura: cura delle parole che usiamo, delle storie che ascoltiamo, delle transizioni che accompagniamo. Ecco che ancora una volta si vedono necessari spazi per rendere attuabile questa cura che è prima di tutto relazionale. Così la comunità accademica si può trasformare sempre più in comunità di pratica dove, attraverso il confronto e l’arricchimento reciproco, si contribuisce a delineare pratiche impattanti.
Le risposte cambieranno col tempo e con i contesti ma tenere aperta la conversazione è già un modo di imparare, insieme.